Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare - 9788823521827

Questo «saggio sulla libertà di non studiare», come recita il sottotitolo, parte da un dato importante: i tempi sono cambiati, lo studio, così come il mondo, non è più quello di una volta, e quindi, forse, apprendere nozioni non è più necessario per le nuove generazioni sempre più immerse nella tecnologia, nei social networks, nel seguire la moda. L’autrice, la prof.ssa Paola Mastrocola (insegnante di italiano e latino al biennio di un liceo scientifico di Torino), si chiede se sia opportuno continuare a insegnare, visto che nessuno sembra più interessato a rimanere seduto davanti a un libro per diverse ore, per cercare di apprendere sempre più cose. E si chiede, inoltre, se non sia meglio togliere il disturbo. La prima parte del libro, intitolata “I nonstudianti”, vuole descrivere il mondo giovanile in maniera implacabile e a tratti un po’ eccessiva. La descrizione si concentra sul loro mondo, sul loro modo di rapportarsi alla scuola, sulla loro uniformità nel seguire la moda e nel vestirsi, e sul loro “non studio”, appunto, tanto che nel primo anno di scuola superiore la docente lamenta una forte carenza di preparazione nella grammatica e nell’ortografia italiana. Tanto che, al test di ingresso di grammatica italiana che viene effettuato in tutte le prime superiori del liceo a inizio anno scolastico, si ottengono risultati sono disastrosi nella classe dell’insegnante: «neanche una sufficienza, su 25 allievi» (p. 13). La seconda parte, dal titolo “Breve storia del non studio”, passa in rassegna le tappe della vita scolastica, a partire da Don Milani (viene trattata la Lettera a una professoressa), passando per Rodari e la sua Grammatica della fantasia, e attraversando le riforme più importanti della scuola italiana di fine anni ’90. La terza parte, “Lo studio come scelta”, contiene la proposta di riforma scolastica ideale della prof.ssa Mastrocola. L’autrice propone tre scuole: la W-SCUOLA (work-school), cioè la scuola per il lavoro, dove andrebbero i ragazzi che, da grandi, vogliono fare un lavoro manuale, dove si insegnano materie utili a creare e progettare, ma anche materie «inutili, quelle non misurabili e non certificabili» (p. 245), per insegnare al ragazzo ad amare la lettura e la musica classica, e per dargli un’alternativa alla misura razionale e materiale del mondo; la K-SCUOLA (knowledge school), cioè la scuola della “conoscenza”, dove si studiano le materie astratte, «sganciate dalla realtà, dall’attualità, dal presente immediato» (p. 246); la C-SCUOLA (communication school), cioè la scuola dove si impara a comunicare, e che ha come obiettivi «la socializzazione, il lavoro di gruppo, la cooperazione, la cittadinanza, la Costituzione, la flessibilità, il multitasking e il problem solving» (p. 247). A tratti poco chiaro e contraddittorio, il testo offre senz’altro, da parte di una persona che la scuola la vive ogni giorno, importanti spunti di riflessione su una situazione scolastica che è cambiata, in alcuni casi peggiorata, ma non in maniera così drammatica come molti, che non la amano, stanno cercando di far credere. È importante, invece, non perdere d’occhio il disagio che le nuove generazioni manifestano, cogliendo e sviluppando al massimo le loro potenzialità, per far sì che scoprano e percorrano fino in fondo la loro strada: questo è il compito primo della scuola.

I vari capitoli riflettono discorsi molto sensati, sussurrati nelle sale-professori di molti licei e sono un forte segnale di rottura con una annosa tendenza alla difesa del "politically correct" anche quando va contro il buon lavoro di insegnante. Non sempre si deve essere d’accordo con il punto di vista dell’autrice, ma è un buon inizio per la discussione. Rispecchia, però il pensiero di insegnanti delle superiori e non scalfisce la realtà delle scuole primarie.